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Pitture del cuore dal Seicento europeo


Le pitture del cuore

(Carlo Ossola, Avvenire, domenica 16 novembre 2008)

Tre libri recenti (Benedetta Papasogli, I moralisti classici, Laterza; e, della stessa, La mémoire du coeur au XVIIème siècle, Parigi, Champion; Louis Van Delft, Les Moralistes. Une apologie, Paris, Gallimard), tutti dedicati al XVII secolo, ci riportano a una questione antica: se l’uomo vedesse davanti a sé dipinti i propri difetti, errori, deformità morali, saprebbe emendarsi?
Pare oggi strano, ma la “pittura dei sentimenti” fu, per qualche secolo, anche più importante della pittura dei paesaggi. Bernard Lamy, citato da Van Delft, delinea quei tratti: «Il discorso è l’immagine dello spirito. Si dipingono umori e inclinazioni nelle proprie parole senza che ci si pensi» (La rhétorique ou l’art de parler, 1675). Camillo Baldi, del resto, era andato più in là, nel suo trattato Come da una lettera missiva si conoscano la natura e qualità dello scrittore (1622), immaginando che chi legge possa sempre vedere in quei caratteri avanzare un uomo con il “cuore in mano”. Domanda di aiuto o offerta di verità, quel pulsare è il nostro scrigno, centro, ricettacolo della memoria, sino a suscitare -nel Cardiomorphoseos di Francesco Pona, 1645- una turrita serie di “emblemi sacri” con al centro il cuore. François Lamy, nel suo analitico De la connaissance de soi-mesme, 1694-97, osservava acutamente che «le nostre idee non ci modificano punto […], mentre i nostri sentimenti e le inclinazioni del cuore sono vere maniere d’essere, vere impressioni calcate nella sostanza». Questa «scienza del cuore» (Papasogli) richiede percorsi attenti, passi avvertiti, ma verso dove? Il cammino verso l’interno non è così agevole come la contemplazione del paesaggio; lo notava già Fénelon: «È ben vero che le parti interne dell’uomo non sono gradevoli a vedersi quanto le esterne. Ma esse non son fatte per essere viste »: se apparissero, infatti, non potrebbero essere contemplate che con «ripugnanza»: «È tale orrore che prepara la compassione: […]: fragilità della creatura, arte del Creatore». Ecco perché crea disagio il «discorso viscerale» : è una verità di noi troppo esibita, uno squarciare il petto, lasciando apparire “interiore e interiora” di noi. C’è un’arte di andare “al centro”, al “cuore” del problema che è ardita e perigliosa; altri, come il Castiglione, preferiscono toccare il soggetto «come per transito», alludendo più che definendo. E del resto, se il centro fosse sempre davanti a noi, non sarebbe conoscenza ma follia, come in Racine: «Dalla sua immagine invano ho voluto distrarmi. / Troppo presente ai miei occhi …» (Britannicus, II, 2).
Si apre allora, e sin da Montaigne, un’altra maniera di “pervenire a noi”: quella del “cammin facendo…”, di continuare ascolto e parola, ogni giorno , senza posa, sino alla fine: «Chi non vede che ho preso una strada per la quale, senza intermissione e senza fatica, avanzerò sin tanto che ci sarà inchiostro e carta al mondo?» ( Essais, III, 9). Al centro di noi o alla fine è la nostra verità? Il padre Dominique Bouhours (1628-1702) non aveva dubbi: «I passi che sono alla fine sono come il riassunto e l’estratto dei pensieri della giornata: raccolgono tutto il senso e tutta la forza in due parole […]. Sono grani seminali, che contengono una grande virtù in una piccola massa, e fanno molto effetto in poco tempo» (Pensées chrétiennes pour tous les jours du mois). Arte di seminare la fine…