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Poesia, consolazione della filosofia

Poesia, consolazione della filosofia

(Carlo Ossola, Avvenire, domenica 23 novembre 2008)

«Varcata la terra, / vengono in dono le stelle» [«superata tellus / sidera donat»]: così, come il Paradiso di Dante, si chiude il De consolatione philosophiae di Severino Boezio (ora riedito, sul testo critico di Claudio Moreschini, nella bella collana, diretta da Michel Zink, «Lettres gothiques», nei Livres de poche). Il testo è preceduto da una meditata introduzione di Jean-Yves Tilliette, che vede saldarsi, nel trattato di Boezio, l’eredità dell’aristotelismo, del platonismo, dello stoicismo, consegnati infine al Medioevo cristiano, che farà di Boezio il più amato degli auctores: Dante stesso lo collocherà accanto a Orosio, Isidoro di Siviglia, Beda, Riccardo di San Vittore, nel X canto del Paradiso (124-129). Due italiani, Fabio Troncarelli e Silvia Albesano (validissima allieva di Cesare Segre) hanno studiato l’immensa fortuna manoscritta e i volgarizzamenti dell’opera. È, questa, un canto di prigionia, di meditazione della morte e dei fini ultimi della vita: Boezio, nato tra il 475 e il 480 d.C., negli anni in cui si chiude la millenaria vicenda dell’Impero romano, discendente da illustre famiglia consolare, cristiano, traduttore dell’ Organon di Aristotele (e fondatore quindi del lessico filosofico occidentale), è presto console nell’Italia di Teodorico. Avendo Boezio preso le difese del senatore Albino, accusato di tradimento per aver tenuto una corrispondenza con l’imperatore di Bisanzio Giustino I, è a sua volta imprigionato a Pavia, torturato, condannato a morte e giustiziato nel 525 / 526 («da martiro / e da essilio venne a questa pace», dirà Dante). La bellezza dell’opera non è solo nella meditazione della vanità della vita, della fama, dei poteri, nella contemplazione dei beni eterni, ma soprattutto nell’alternarsi di verso e prosa. La prosa argomenta e il verso eleva; la prosa dialoga e il verso stringe a sintesi; la prosa si distende nelle peripezie terrestri e il verso s’invola nei regni della luce. La prosa scorre nella storia e il verso la riscatta nell’armonia delle ragioni celesti: «O tu che governi il mondo con perpetua ragione» [«O qui perpetua mundum ratione gubernas»]. Il fascino dell’opera è soprattutto quello di aver saldato poesia e filosofia, di aver fatto della poesia lo scrigno del ragionare della mente. Il prosimetro di Boezio si pone accanto a quello di Marziano Capella , De nuptiis Mercurii et Philologiae (V secolo d:C.), come fondatore di un genere che troverà nella Vita Nova di Dante il più alto compimento. Non meno, l’apparire di Filosofia, sin dal I libro del De consolatione, donna severa e maestosa, resterà nella mente di Dante al disvelarsi di Beatrice nel Paradiso Terrestre (anch’essa dapprima severa con il poeta). Nei versi di Boezio, il ricordo dei più memorabili incipit di Orazio, di Lucrezio s’intreccia al retaggio del «fondo oro» della bizantina Ravenna e produce nuove vivide figure di poesia e moralità: « Anche se il ricco, in fluenti onde d’oro, / avido nuotasse in ricchezze che non tratterrà»[«Quamvis fluente dives auri gurgite /…»]. Soprattutto prepara, nei suoi versi, la «lucida fonte» dei luminosi cieli del Paradiso di Dante: «O stelliferi conditor orbis», sino al culmine di un sigillo che nei due testi pare dettato da uno stesso moto, che unisce e armonizza: «O felix hominum genus, / si vestros animos amor / quo caelum regitur regat!», «ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa / l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par., XXXIII, 143-145). Poesia, vero paradiso della filosofia!