ISI - Università dalla Svizzera italiana

Letteratura europea e medioevo volgare

Piero Boitani, Letteratura europea e medioevo volgare, Bologna, il Mulino 2007, pp. 537.

La critica ipertestuale di un Medioevo riscoperto

di Francesco Stella

Il prepotente ritorno alla critica tematica che si registra in Italia negli ultimi anni, recentemente glorificato in dimensione monumentale dal dizionario UTET dei temi letterari, è soprattutto un ritorno al metodo della grande comparatistica novecentesca di Spitzer e soprattutto di Auerbach e Curtius: giganti dell’esplorazione letteraria che nel nostro paese hanno atteso decenni per essere conosciuti e tradotti a causa dell’ostilità dichiarata dalla critica idealista al modello di un sistema letterario unitario e di una morfologia storica delle letterature europee. Questo pregiudizio sembra ormai in via di faticoso superamento grazie alla tendenza interdisciplinare e all’orizzonte sovranazionale che sta imponendo una graduale rivisitazione dei metodi di analisi anche nella letteratura. Più difficile da scalfire è il pregiudizio sul valore e l’influenza della letteratura e della cultura medievali. È stato possibile in questi mesi leggere recensioni alle recenti traduzioni di Auerbach che evitavano accuratamente perfino di nominare il Medioevo, come se l’autore di Mimesis e Figura si fosse occupato di narrativa sudafricana o di epistemologia azteca. Questo tabù è ormai sgretolato sul fronte storiografico, grazie soprattutto alla forza d’urto della scuola francese delle Annales, ma sopravvive – nelle scuole e sui media - ogni volta che si parla di letteratura. Ci si meraviglia delle “scoperte” sul ruolo politico delle donne nel Medioevo e si ignora (anche da parte degli storici) che il millennio medievale - a differenza della civiltà classica e a lungo perfino di quella moderna - è popolato anche da grandi scrittrici in latino e nelle lingue vernacolari. Non solo Eleonore e Matildi, ma Rosvite, Costanze, Ildegarde, Eloise. Il fantastico panorama che Piero Boitani presenta in questo suo Letteratura europea e medioevo volgare si basa proprio sulla volontà di superare le «distinzioni archeologiche e filologiche cui ci ha abituato l’umanesimo» e recuperare la potenza d’immaginazione dispiegata fra VI e XV secolo in una miriade di opere letterarie la cui reperibilità è ancora oggi un’impresa.

Il titolo del volume fa riferimento all’insuperato capolavoro di Ernst Robert Curtius Letteratura europea e medioevo latino, pubblicato nel 1948 e tradotto in italiano solo nel 1992, che per la prima volta usava il grimaldello dei luoghi comuni della poesia e della retorica per ricostruire continuità dimenticate fra l’antico, il tardoantico, il medievale e il moderno, dipanando con coltissima pazienza i fili che collegano Omero e Orazio a Dante e ai Carmina Burana per riaffiorare in Calderón, Goethe, Diderot ed Eliot, attraverso la mediazione di nomi esotici come Venanzio Fortunato, Aldelmo di Malmesbury, Alcuino di York, Alano di Lilla, Bernardo di Chartres, Ildeberto di Le Mans e altri cento prigonieri dell’oscurità. Il segreto di quel monumento alla forza metamorfica della tradizione, tanto celebrato quanto discusso proprio per la schematizzazione “continuista”, classicista e centralista ma ancora utilizzato da ogni studioso di letterature europee, stava nella conoscenza diretta di una galassia di autori e testi del medioevo latino, che i programmi scolastici e universitari lasciavano e lasciano tuttora fuori dalle storiografie addomesticate. Ma al grandioso affresco di Curtius mancava un pannello fondamentale: il Medioevo volgare, cioè i capolavori delle letterature europee fiorite dopo il IX secolo. Boitani prova ad avventurarsi in questo oceano di idiomi avvalendosi, come Curtius, sia di una conoscenza diretta di molti testi, soprattutto medioinglesi e italiani, sia di una sensibilità alla letteratura contemporanea che lo mette in grado di collegarla con disinvoltura al passato grazie appunto alla leva tematica: un esempio sorprendente sono le pagine dedicate a Charles Wright, forse il maggiore poeta americano vivente, tradotto in Italia per la prima volta dalla rivista “Semicerchio” nel ’94 e poi in due volumi curati da Antonella Francini ma sostanzialmente sconosciuto nel nostro paese. Boitani offre una lettura penetrante e delicata di alcune sue liriche all’interno dell’excursus sulla fortuna di uno dei campi metaforici apparentemente più triti della poesia dantesca, le immagini delle stelle. Come per Curtius, il cardine intorno a cui tutto il meccanismo verifica la sua tenuta è infatti la Divina Commedia, ma a differenza di Curtius Boitani ha un secondo faro che gli serve a illuminare lo spazio circostante, un altro lago nel quale confluiscono e ripartono fiumi che vengono da altre dimensioni: l’opera di Geoffrey Chaucer, l’autore dei 10 Racconti di Canterbury. Boitani ci guida con capacità affabulatorie inconsuete in un filologo verso le fonti latine o boccacciane della storia del “cavalier” Troilo, nobile figlio di Priamo, e della sua amata Criseida, figlia dell’indovino Calcante, che finisce per tradire Troilo con Diomede: una storia che a Chaucer arriva dal Filostrato di Boccaccio e che da Chaucer proseguirà verso Shakespeare e Dryden. Il narratore inglese diventa così la sliding door di temi in entrata e in uscita su cui si misura la circolazione narrativa nei vari universi letterari del medioevo: di forme (il romanzo), di personaggi, di personificazioni (la Fama), di motivi (crepuscolo e notturno), di luoghi (la foresta, la caverna, il castello, il labirinto).

Questa forma di comparazione dei testi propone un metodo che Boitani ha sempre seguito, ma che a nostro parere diventa sempre più familiare via via che avanza la nostra abitudine alle tecnologie informatiche: la critica come navigazione continua, il surfing fra testi che rimandano ad altri testi, già descritto da Petrarca in una lettera («il meccanismo di risalire da un autore e da un titolo all’altro »), che ancora meglio si rispecchia nell’immagine del Laborintus come lo definisce Eberardo il Tedesco, più tardi ispiratore del primo Sanguineti: «edificio tortuoso […] dove sempre risuonano voci», e dove in ogni voce ne sentiamo risuonare altre, ed altre ancora. Un metodo che è stato apprezzato e qualche volta discusso, e che tuttavia non può non colpire in quanto materializzazione critica avanzata della concezione ipertestuale, un metodo che assomiglia moltissimo al viaggio di Dante. I capitoli più compatti, anche se meno legati al metodo di Curtius, sono dedicati infatti alle tre corone trecentesche, e il più appassionato è ancora una volta quello su Dante, che Boitani vede come testimone di una medievalità rivolta all’indietro (a Virgilio, alla coscienza della propria bloomiana angoscia delle influenze) e come generatore di riscritture feconde: in particolare di due plessi mitici cui Boitani ha già dedicato volumi importanti: Ulisse e la Bibbia. L’arrampicata più audace viene tentata invece sulla parete di un insospettabile Melville, il cui rapporto con Dante viene cercato fin nelle pieghe dei suoi appunti sull’edizione americana della Commedia. Le pagine dove il percorso diacronico prende una temperatura più alta sono però quelle dedicate alla presenza medievale, e dantesca in specie, nei grandi poeti modernisti Eliot e il suo maestro Pound e quelle, forse più nuove, dove prendono forma alcune delle figure che più a fondo hanno girato la chiave dei testi medievali: Auerbach, il primo a comprendere gli effetti stilistici della rivoluzione cristiana e ad analizzare il rapporto fra società e scrittura nel medioevo, e Clive Staples Lewis, che ha raccontato lo sviluppo delle più grandi invenzioni medievali: l’amore cortese, poi recuperato e imposto dal Romanticismo e dal cinema come condizione naturale del sentimento, e l’interpretazione allegorica del mondo, moltiplicatore di sensi che solo la semiologia moderna ha saputo valorizzare. Sulla scia di Boitani, altri potranno continuare la galleria con Zumthor, Dragonetti, Jauss, Avalle, Segre: alimentando così il paradosso di una mondo letterario che ha generato i paradigmi critici più avanzati del secolo, ma i cui testi non parlano più se non attraverso le loro voci aliene, i loro replicanti moderni.

Alias inserto de Il Manifesto, 12 gennaio 2008, p. 22.